Religione illiberale

Mentre nella maggior parte dei paesi civili la libertà di fede religiosa è un dato di fatto ed appartiene all’insieme delle libertà individuale inalienabili, meno evidente è la consapevolezza di quanto assente sia la libertà degli individui se proiettati in una dimensione di fede e ritengo che su questo punto si debba concentrare l’attenzione.

Abbracciando una confessione religiosa automaticamente vengono abbracciati tutti i dogmi, le disposizioni e i precetti che ne fanno parte e che da essa derivano.

Ritengo che sia assurdo e sbagliato pensare di impedire, per esempio, alla chiesa cattolica di comunicare ai propri fedeli ed in generale a chiunque abbia voglia di ascoltarla ciò che essa ritiene sia giusto o sbagliato fare, come ci si debba comportare e cosa sia invece inopportuno e sconveniente. La chiesa cattolica, così come qualsiasi altra chiesa, istituzione religiosa e, più in generale, ogni altra associazione di individui deve poter godere del diritto, garantito dalla costituzione, di esprimere le proprie opinioni, ad eccezione ovviamente di quelle che esplicitamente non siano dalla costituzione stessa considerate illegittime.

Di contro l’Italia, come stato laico, non dovrebbe prendere posizioni condizionata da un credo specifico o da disposizioni provenienti da organizzazioni e associazioni di alcun tipo. Dovrebbe essere libera e impermeabile a qualsiasi genere di condizionamento, agendo in piena autonomia ricercando nello svolgimento dei propri compiti e attività quelle soluzioni che vadano a vantaggio dell’intera collettività.

Questo è, per così dire, l’ideale verso cui tendere. Nella realtà le cose sono assai diverse e distanti.

Il problema risiede infatti nella natura stessa della dottrina cattolica, così come in quella di qualsiasi altra dottrina.

Prendiamo un esempio che possa funzionare da modello: l’uso del profilattico (ugualmente si potrebbe parlare di fecondazione assistita, dell’aborto, dell’omosessualità, etc…). L’utilizzo del profilattico è inviso alla chiesa cattolica, per motivazioni che sono legate indissolubilmente alla propria etica, alle proprie posizioni in tema di sessualità ed alle interpretazioni che negli anni ha fatto delle sacre scritture a cui fa riferimento.

La posizione ovvia dello stato laico dovrebbe consistere nel non impedirne l’utilizzo a chi lo ritiene opportuno e nel non obbligarne l’uso. Unitamente a ciò vi dovrebbe logicamente essere una chiara presa di posizione, supportata da evidenze scientifiche e oggettive, in favore del suo impiego come strumento indispensabile per far fronte a determinate problematiche come l’esistenza di malattie sessualmente trasmissibili. Presa di posizione che deve manifestarsi non in forma impositiva, bensì come avvertenza alla popolazione. Resta quindi inteso che lo stato laico non si pone come portatore di verità e doveri dogmatici nei confronti dei propri cittadini (chi non desidera usufruire del profilattico, poiché il credo in cui ripone fede lo impedisce, può tranquillamente non utilizzarlo rispettando così la religione di appartenenza).

Diverso è l’atteggiamento religioso, ovvero lo stesso fedele che dallo stato viene equiparato in termini di diritti e doveri a qualsiasi altro cittadino e per questo è a tutti gli effetti detentore di libertà innegabili e inviolabili, diversamente viene visto se scrutato attraverso il filtro della religione.

La libertà, concessa dallo stato (utilizzare o meno il profilattico) svanisce sostituita da un divieto assoluto e inappellabile.

La contraddizione si genera quando chi, come rappresentante dello stato laico, deve legiferare in merito ad una problematica di questo tipo, contestualmente abbraccia una fede che sulla problematica in oggetto impone una posizione specifica di obbligo o divieto.

Questo rappresentante istituzionale si troverà nella scomoda posizione di dover esprimere il proprio giudizio da un lato valutando ciò che è meglio per la collettività (norma a validità generale) e dall’altro vincolando la propria idea a quanto gli viene dalla fede religiosa che supporta (spesso nella convinzione che essa coincida con il bene comune).

Il risultato di questo conflitto rischia di portare a leggi tali da imporre, anche a chi non crede nella serie di norme e precetti derivanti da questa o quella particolare religione di cui il legislatore è sostenitore, obblighi che da essa derivano. Da qui l’illiberalità della fede.

Tale cortocircuito appare insormontabile, quindi inevitabile a meno di complicate operazioni di sdoppiamento che il legislatore dovrebbe compiere lasciando al di fuori delle sedi istituzionali il proprio credo per riabbracciarlo non appena espletata la propria funzione e divenendo nuovamente un semplice libero cittadino.